Ho visto uomini (?)
È il 2018 e Aurelio dà in gestione la Capanna di Punta Penia a Carlo. Il rifugio, 4 pareti di lamiera contro il vento, poggia sulla cima principale della Marmolada, a quota 3343. Ogni anno Carlo vi trascorre 100 giorni nei mesi più caldi offrendo un pasto e un letto agli avventori della cima. Luca, dalla base del ghiacciaio, osserva gli alpinisti che ogni giorno intraprendono la via normale da Pian dei Fiacconi fino alla vetta. Le cordate procedono lente per 700 metri di dislivello attraverso lo spesso strato di ghiaccio, oltrepassano la ferrata e percorsa la cresta sommitale arrivano alla croce di vetta.
Il primo ricovero sulla Regina, risale al 1875, a quota 3100m. Oggi, 147 anni dopo, il ricovero è inutilizzato a causa del ritiro dei ghiacciai ed è sito a un altezza di 80 metri dall’attuale livello del ghiacciaio, raggiungibile solo calandosi dall’alto.
Il giugno del 2022 è stato un mese particolarmente caldo, lo zero termico si è lasciato alle spalle i 3000 metri accelerando lo sciogliersi delle nevi. Ho percorso con mio padre i 700 metri di dislivello che da Pian dei Fiacconi conducono alla cima portando con me la mia analogica. Ho scattato 2 rullini, chiacchierando prima con Luca che mi prese in giro per le scarpe inadatte per la risalita e poi con Carlo mentre mangiavamo una crostata appena sfornata dalla sua cucina di vetta.
Ho capito quanto siano preziose queste memorie e quanto questi luoghi siano destinati a non essere più praticabili e sicuramente diversi da come li conosco io. Ho scelto di incominciare un percorso alla ricerca dei rifugisti che condividono la vita con la solitudine delle quote inospitali, raccontando le vie normali e i volti di chi ha scelto di vivere la propria vita 1000 metri più in alto di tutti.
La prima parte di questo progetto è stato realizzata in Marmolada (a cavallo tra le province di Trento e Belluno) nel giugno del 2022, è stato realizzato interamente con una Canon AE1 analogica e rullini Kodak porta 160.
A forza di essere vento
Cosa siamo quando torniamo?
Cambia parole, cambia modo di pensare.
Luna non parla nel sentiero che risale dal lago, sento le punte in acciaio delle racchette che sbattono a intervalli regolari sul sentiero, prima vicine, poi lontane, poi più vicine ancora.
Cosa c’era prima del silenzio? Com’è che il respiro ciancica nell’uscire? Com’è che il vento ti fa comodo e la roccia non è più fredda? Com’è che non vedere un tramonto ma starsene tra le nuvole con l’umidità che si siede sulla terrazza del rifugio ti piace? Cos’è questa voce che conosciamo?
È l’eredità emotiva, un lascito millenario di affinità elettiva col poco e col tanto. Poca aria, tanta altezza, poco agio, tanto spazio, poco fiato, tanto tempo, tanto tempo che scorre palesemente con andamento lento. È la sensazione convinta che condividi uno spazio già vissuto, che vibri al suono del vento, che lo lasci entrare dalla finestra a sbalzo sulla valle.
I ragazzi riposano al piano di sotto, c’è chi legge, chi dorme, chi guarda lontano attraverso il doppio vetro, lo scanner ripete le sue passate sui negativi.
Ci sono enormi profili bianchi, indefiniti personaggi d’alta quota che si arrampicano sulla parete sud per poi espandersi sulle nostre teste e mentre lasciano spazio a scorci blu, Luca appoggia il filtro tra i lembi della cartina. Siamo così piccoli. Ma lo senti il vento? Lo vedi?
Camminiamo nel largo sentiero che porta alla cima del piccolo Lagazuoi e la visibilità si riduce. Cambio senso di marcia e torno veloce verso la grande terrazza di legno, non sarebbe bello perdersi? Sempre così rigidamente indottrinati a seguire una via tratteggiata, sempre così ostinatamente autoconservatori.
Sono gli ultimi passi sul sentiero. I cavi della funivia cessano di scorrere, Andrea chiude la porta a chiave, Simone scende dalla cabina dell’ultima corsa del giorno verso valle. È il momento che preferisco, quando quassù ci siamo solo noi. La montagna è la nostra tenera amante e noi, a forza di essere vento, siamo perdutamente innamorati di lei.
‘A forza di essere vento’ è un crescendo di lentezza di un percorso condiviso ad alta quota. Il tempo trascorso nella foresteria della funivia è stato per me occasione di dare un nome a un sentimento articolato per l’ambiente montano, un sentimento che è rispetto, timore, attaccamento, curiosità: l’eredità emotiva. Abbiamo esplorato uno spazio che è diventato presto familiare, sperimentando la distanza e la vicinanza agli stessi luoghi, le diverse luci col passare delle ore e lo spostarsi delle nuvole. Il lungo crinale del Lagazuoi è ora per me una culla di consapevolezza e testimone di sentimenti sinceri.
Ostranenie di Paola
Paola è nata a Belluno nel 1944. Ha studiato lettere moderne, ha conosciuto Ernesto che lavora in Fiat, lo ha sposato (gliel'ha chiesto lei) e si è trasferita a Torino. Qualche anno dopo nasce Maria Clotilde. Paola insegna lettere, dipinge (a volte pure sui mobili), non va mai in chiesa, legge molto e parla tanto. Paola forse è un po' polemica, porta sempre degli orecchini molto vistosi, il rossetto rosa e l'ombretto verde. Paola ha una casa al mare, è sera, Ernesto la chiama e lei non risponde al telefono.
Da quel giorno mia zia Paola parla in modo diverso, pensa una cosa ma ne dice un'altra, sbatte le mani sul tavolo, si mette a ridere e continua a mettere insieme parole senza senso. L'ictus le ha portato via il suo connotato preferito, strizzando l’occhio al contrappasso dantesco.
Paola continua a dipingere (zio dice che lo fa con colori più scuri), chiama tutti ‘Ernesto’, ogni tanto va in chiesa, ha ripreso a cucinare e come nonna sta riempiendo la casa di piante.
Cosa c'è in questo nuovo vedere che lei racconta? Com'è la sua Torino? Che forma prende il Valentino? Cosa diventa la collina di Superga? Chi è Ernesto? Chi è Clotilde? Chi sono io?
Stavo pensando al mare
Stavo pensando al mare. Mi sono tuffata in una sensazione di stordimento profondo e ho ricominciato a respirare.
Stavo pensando al mare. Credo lo abbia detto mamma quando le ho chiesto di scegliere un posto.
Stavo pensando al mare sardo, alla costa dove il maestrale chiama potenza e le dune sono mura invalicabili.
Ho pensato per 8 estati, quelle dove siamo stati 2, al mare. Alla nona ho fatto ritorno in Sardegna, con la memoria agli
anni dove siamo stati 3.
Ho pensato di poter decidere se quel 30 agosto ci sarebbe stato il maestrale, pregando di trovare un mare calmo.
Sono entrata in acqua con papà che mi stringeva i fianchi e ho guardato l’acqua e il vento portare via le ceneri. Il sole
delle 7 a guardarci.
‘Stavo pensando al mare’ è un percorso di 10 giorni nel mare della mia infanzia per riportare le ceneri di mia mamma nel
posto che desiderava a distanza di 9 anni dalla sua scomparsa.
Terra chiama terra
Dominique deve prendere il prezzemolo. Carichiamo tutto su una lunghissima jeep e risaliamo le piste da sci.
La teleferica che porta al rifugio tende una linea retta silenziosa sopra le nostre teste. Quanta gente, non sento più le marmotte.
Glielo diamo il pane al corvo?
Sono scalza sul legno consumato del tavolo del rifugio, mi riabituo alla forma di quest’aria, ascolto le mie gambe stanche e intorpidite. Quanto mi manca camminare davvero.
Un anemone si muove, un uccello vola via da dietro un masso. Ho perso Yuri e Edo.
Le nuvole respirano, si gonfiano e sconfinano entrando e uscendo dalle forcelle, vedo le ombre correre sui prati. Il corvo ha smesso di cantare. Strana no questa neve di giugno?
Perdo il conto del ritmo del cuore, una marmotta mi urla accanto. Riprendo ad aggiustare i passi sulle pietre, camminando verso la base delle pareti. Perdo il filo dei passi correndo dietro a una marmotta.
6.30 è ora di cena. 54 blocchetti di jenga impilati a gruppi di 3. Mi addormento con la sveglia nelle orecchie. Sta cosa dell’ alba non la voglio fare.
La nocciolata fatta dai ragazzi sta benissimo sul pane nero. Il calore dell’alba se n’è andato col vento, arrivato col sole. Abbiamo iniziato la giornata seduti lassù, un centinaio di metri più alti del rifugio guardati un corvo dal becco giallo. Si è bucato il cielo.
La teleferica arriva circa alle 9.15, Franz ha già avviato il goulash e il brodo.
Sono le 10, sono sveglia da 5 ore e inizio a essere un po’ disorientata.
Pac entra in sala da pranzo con un topo in bocca e le pupille grandi.
Laura è quassù da 3 anni, ha cambiato 2 corsi di laurea e si è fermata a Roda a pensare. Quante persone pensano quassù? Il grande catino con scritto ‘BUCATO’, le mutande nere che continuano a cadere a terra, le mollette sono finite.
Ci sediamo a pranzo coi ragazzi, conosciamo Simone che ha preparato un’insalata di rape rosse, acciughe e aglio. Un’ora dopo Simone si taglia il dito prepotentemente con un coltello, più tardi scenderà a valle.
Osservo Jon che divide i semi, domani li piantiamo dice. Divide i piselli dai semi di girasole, parla poco italiano ma racconta che a casa ha tante piccole piante. Non ho capito se per casa intenda giù in valle o la casa che ha lasciato in Moldavia.
Perdiamo il filo del tempo in una bottiglia di vino 13 ore dopo il suono della sveglia. La bomba esplode nelle parole urlate a casaccio, Edo e Yuri sono in un pozzo di blu.
Pioviggina, spostiamo le tazze un tavolo più in là.
Un velo di luna a sud, piccoli rumori sordi dal primo piano del rifugio, la luce si spegne. Edo ha le cuffie e si sposta piano per campionare rumori.
Questo silenzio mi riempie lentamente, mi ci sdraio sopra ascoltando i respiri nella camera, è notte inoltrata per chi tra poco guarderà il sole salire dietro al Pordoi. Senti ma Pac l’hai visto?
È forse salito il sole? L’erba è umida e si scivola con le birken. Robi è seduta su un sasso, Roda sullo sfondo, parliamo di ricordi felici e di cosa sia casa, di cosa sia famiglia e di quel terzo abbondante di vita a respira quest’aria.
Possiamo restare. Si sono liberati dei posti nella camerata lassù. Ridimensionare, stare, capire. Scendere, no, rimandare.
Martina prepara le marmellate per la colazione mentre ci racconta che è scappata da Milano per trovare altri ritmi. È un discorso che ora, alle 23.58, è ridondante. Questo parlare che definisce a tastoni il concetto di vita normale, di vita giusta, di vita.
C’è Sara, seduta sotto la Sforcella. Ci parla del Sud America, del Nepal, di quello che è e che vuole essere e di come combinare il pugno di amori che ha maturato. Si può forse inventare ancora qualcosa?
Se l’è chiesto Frenny 1 ora dopo. Il vento si era calmato e il sole contava i minuti prima di infilarsi tra le crode.
Jon ha portato dei semi dalla Moldavia 2 anni fa, li ha messi a bagno per far crescere i germogli nella fibra di cocco.
Edo sta in piedi nel buio, nuvole muoversi attorno alla luna, qualcuno parla forse sul Sasso.
La gente respira in tanti modi diversi nel silenzio della camerata che riposa.
Dicono di essere degli scappati di casa, loro che stanno quassù, quasi fosse un difetto. Mi si stringe la gola in quegli ‘ah ma anche tu?’, ah ma anche noi in questo sbagliatissimo giusto scegliere di non scegliere.
È una mano che passa tra gli alberi a risvegliare la notte dove arrivano le dita dei ghiaioni, lingue bianche di calmi vulcani.
Terra chiama terra. È il respiro della montagna che si alza col sole. Tornare per restare, restare per stare. È una palette ridottissima che calma con la sua ridondanza, nel perno della bussola che è il rifugio, il sole gira sulle cime, sul Sasso, sul prato davanti al rifugio.
Zuccheriere sul tavolo da riempire, marmellate da svuotare. Con che turno mangiate voi?
Fare parte di un microcosmo d’alta quota, nell’intimità delle domande che abbiamo fatto a queste persone quassù, che fortuna. Penso sia questione di sintonizzarsi su frequenze simili, senza forzature di genere ma nella danza di uno stormo che si muove all’unisono senza una guida precisa.
Sono i suoni di un pranzo nel retro del rifugio, dietro quella catenella da scavalcare, con la vista sulla valle e il vento che arriva da ovest.
Non so se voglio scendere, so che dobbiamo, fosse stasera o domattina. Ma in tutta onestà potrebbe passare un altro mese quassù senza che io senta la mancanza di qualche centinaio di metri in meno.
È giorno, nella notte di luna piena con i fulmini dietro le pareti bianche. Siamo rimasti per un ultimo abbraccio.
Chiudo gli occhi in una pioggia fitta portata dal vento sotto la tettoia del rifugio.
Il cielo è blu, oggi più che mai. Apro il vasetto della nocciolata.
Le colazioni qui sono tinte di vecchi film nelle baite di montagna, col sole che entra dritto tra le tende merlettate, sul tavolo in legno.
Mi stendo qualche secondo sul prato. Li abbracciamo tutti, uno per uno, col sollievo che ci sarà presto un ritorno nella Casa Alta a far sentire tutto l’amore di una famiglia che vive lassù.
Corriamo veloci verso valle, Dom sta arrivando con la jeep a prenderci. Ha piovuto tanto stanotte, non scivolare